Il Volontariato Ambientale:

un caso di dono anonimo?

  

Introduzione

             Questo articolo ha un duplice scopo. Da un lato, serve ad approfondire e specificare dimensioni analitiche del dono, in particolare di quello anonimo, dall’altro, serve a presentare alcuni risultati di ricerca emersi su un caso tipico di dono anonimo, quello del volontariato ambientale. Verranno illustrati i risultati di alcune interviste a gruppi di Guardie Ecologiche Volontarie (gev) in servizio in diversi ambiti territoriali dell’Emilia-Romagna.

            La particolare scelta del taglio analitico è dettata da alcune considerazioni: la problematica del dono è riemersa nella letteratura delle scienze sociali con nuove e interessanti prospettive. Gli autori di questa riscoperta hanno voluto superare la visione manichea del dono, visto come atto individuale di puro amore o come gesto che crea una dipendenza nell’altro, incapace di ricambiare allo stesso modo. Si è recuperato il significato relazionale del dono, inteso come medium volto a conservare una relazione aperta, intensa e continuativa. Questa riscoperta si deve a studiosi francofoni raccolti attorno alla ‘Revue du Mauss’ (Berthoud 1994; Caillé 1998; Godbout 1994), ed anche a studiosi italiani del terzo settore che hanno guardato al dono come reciprocità (Boccacin 1990; Donati 1993; Ranci 1994; Zamagni 1997).

            Il nuovo approccio, connotato in senso relazionale, rischia però di porre in un cono d’ombra il dono anonimo, quello rivolto ad una collettività o quello che avviene senza che donatario e ricevente si conoscano. Tale è, in diversa misura, il dono del sangue, il volontariato ambientale, quello culturale e quello di protezione civile. E’ un segmento particolare dell’universo del volontariato, che rischia di essere marginalizzato se non si chiariscono le dimensioni specifiche che lo qualificano.

            In altra sede si erano messi a fuoco alcuni punti per avvicinarsi alla problematica del dono anonimo (Osti 2000). Si era detto che il dono è al centro di una tensione irrisolvibile fra la libertà di dare disinteressatamente e l’obbligo di dare secondo leggi e consuetudini o semplicemente per ricambiare. Si era detto che questa tensione si ‘sposta’ in molte situazioni verso il polo dell’obbligo; il dono si contamina, perde la sua purezza, si codifica in norme sociali. Il dono anonimo è una forma di contaminazione, nel senso che viene codificato secondo parametri che identificano l’altro - il destinatario - in senso astratto. L’altro assume qualità standard che attraverso il dono si vogliono mantenere o raggiungere. Mentre nel dono personale, si può pensare ad una alta contingenza, ad una regolazione che avviene di volta in volta, ad una codifica che si può modificare al di là di ogni istituzionalizzazione, nel dono anonimo c’è l’adeguamento ad un cliché che identifica l’altro come fascio di diritti, bisogni, esigenze. Nel dono anonimo il donatario si uniforma ad uno standard morale o politico; ad esempio, ad un parametro di giustizia[1].

            L’approccio relazionale è dunque utile fino ad un certo punto per capire il dono anonimo. Tuttavia, neppure le vecchie considerazioni sul dono come puro strumento di potere servono a molto. Il dono senza interlocutori diretti si presenta come un caso intrigante, che necessita di specificazioni del tutto particolari delle attuali piste di ricerca.

Il caso delle Guardie ecologiche si configura come un banco di prova particolarmente interessante. Su queste figure confluiscono casi e situazioni molto diverse. Si potrà verificare se l’approccio basato sul dono anonimo ha un senso ed una capacità discriminante. Inoltre, bisogna anche dire che questo tipo di volontariato è poco conosciuto, almeno in Italia; meriterebbe maggiore attenzione, anche perché viene svolto con uno spirito di abnegazione esemplare dal punto di vista morale.

 

 

1.      Come giustificare il dono anonimo

 

Il dono anonimo si presenta come atto di generosità rivolto a persona o collettività, senza che sia possibile rintracciare ‘immediatamente’ il soggetto che lo compie. Nell’avverbio di tempo e di modo si cela tutta la specificità del dono anonimo. Esso è tale perché l’identità del donatore è, per un certo lasso di tempo e per vari fattori, sconosciuta. Le ragioni di ciò sono diverse. Una prima ragione è che vi è una precisa volontà del donatore a tenere nascosta la propria identità. Questo succede in varie forme di carità o assistenza economica, quando il donatore vuole adeguarsi al famoso principio che ‘non sappia la mano destra cosa fa la sinistra’. Una seconda ragione è che vi è una difficoltà tecnica a risalire al donatore per scarsità di tempo, perché è lontano, per il tipo di dono, per la numerosità dei donatori o dei riceventi. Si pensi alle somme elargite per catastrofi o per aiuti al terzo mondo. In quel caso non c’è una volontà di occultare la propria identità ma risulta difficile mettere in contatto diretto chi dà e chi riceve. Vi è poi una terza ragione: per motivi di opportunità è preferibile che non si sappia chi è il donatore. Nel caso del dono del sangue il pudore, la volontà di garantire un accesso imparziale al bene, la tutela della privacy fanno sì che donatario e ricevente non si conoscano. Questa condizione è una precisa scelta delle organizzazioni di raccolta ed è permessa dalla tecnica, grazie alla quale è possibile conservare per un certo tempo il sangue. 

            La protezione dell’ambiente appare come una (eventuale) forma di dono che resta anonimo per ragioni tecniche: si è di fronte ad un bene pubblico la cui salvaguardia e fruizione non è escludibile per alcuno. Chi fornisce il servizio, ma soprattutto chi ne fruisce è così numeroso che rende difficoltoso o improbabile risalire al benefattore.

            Per il volontario che si occupa di ambiente non vi è una volontà deliberata di nascondere la propria identità né è opportuno che lo faccia per ragioni morali o politiche. Egli piuttosto è impossibilitato o fortemente limitato ad avere contatti diretti con i fruitori. Questo aspetto va sottolineato: significa che le valenze relazionali del dono sono pertinenti, sicuramente anche auspicabili, ma difficili da realizzare. Nel volontariato ambientale come in quello culturale la valenza relazionale è dunque virtualmente elevata, anche se limitata da ragioni tecniche relative al tipo di bene-dono che viene elargito.

           

            In base alla definizione qui data, possiamo specificare che la relazionalità (o legame), colta come dimensione tipica secondo gli studiosi del M.a.u.s.s., non può rappresentare la struttura fondante del dono anonimo. Questa dimensione non è escludibile ma non rappresenta il centro, il motore, la ragione del dono in cui è sconosciuta l’identità degli attori in gioco. Cosa spiega allora questa forma di azione?

Gli studiosi dell’approccio relazionale sono diffidenti verso una domanda così formulata, perché implica una causalità semplice, una direzionalità dal soggetto all’oggetto, una ricerca di cause personali. Nel dono, invece, bisogna cogliere l’interazione contingente, i mutui passi dell’uno verso l’altro, il reciproco condizionamento. Tutti fenomeni difficilmente inquadrabili nell’atto di un agente.

            Tuttavia, l’esistenza di un dono in cui ‘di fatto’ la relazionalità è molto limitata impone di esplorare le ragioni di una simile azione. Perché un soggetto si cimenta in un’azione gratuita senza neppure la gratificazione di un sorriso, di un cenno di assenso, di un riconoscimento anche informale? 

            Le risposte a questa domanda sono almeno quattro:

 

I - la prima fa riferimento, proprio per smentire in qualche modo quanto appena detto, alla relazionalità. Il protagonista del dono anonimo recupera la forte valenza relazionale del suo agire attraverso il gruppo nel quale opera. È noto che uno spartiacque importante del volontariato è la sua dimensione associativa, il fatto cioè di svolgere l’azione benefica in un gruppo, all’interno di un’organizzazione permanente[2]. E’ facile notare fra i criteri di ricerca sul volontariato il requisito del gruppo stabile. La stessa legge italiana sul volontariato è impostata per gruppi e non per singoli. Eppure l’azione gratuita senza interlocutori è possibile anche senza un gruppo di coadiuvanti. Lo testimonia il fatto che diversi casi di volontariato ambientale vengano svolti in solitudine, in coppia o senza una coerente vita di gruppo. Quindi, il dono anonimo, frutto della tensione verso una intensa vita di gruppo, della ricerca di una identità nel piccolo insieme di persone con cui condividere passioni e valori[3], è una ragione plausibile che però non sembra esaurire la gamma dei comportamenti in campo.

 

II - la seconda ragione fa riferimento ad una ‘fede’. Questa dimensione si declina in modo diverso a seconda del referente della propria fiducia. Esso può essere un’entità trascendente, un leader carismatico, una entità astratta come il popolo, la giustizia, il cosmo. Un soggetto può dare gratuitamente perché sente che questo è un imperativo che deriva dalla propria credenza, perché sente che un’entità superiore riconoscerà questo suo sforzo e lo ripagherà in qualche modo. L’argomento è fin troppo noto per essere ulteriormente analizzato. Basti qui dire che in termini religiosi si giustifica un dono anonimo sia per l’attesa di un premio ultraterreno sia per fedeltà alla chiamata o volontà divina. L’assenza di una probabile gratificazione derivante dalla restituzione del beneficiario o, comunque dalla relazione con questo, viene compensata o surrogata dalla relazione con la divinità o dall’attesa di una vita migliore dopo la morte.

Le ideologie laiche, le utopie terrene, i miti del progresso funzionano con lo stesso meccanismo. La gratificazione per un gesto di generosità disinteressato deriva dall’intima coerenza con i dettami dell’ideologia e/o dal premio che si potrà ottenere quando il bene da questa previsto verrà realizzato. Ciò che sostiene l’impegno è una fede, una credenza in qualcosa di sovraindividuale, di ultraquotidiano. La differenza fra fede religiosa e fede ideologica sta nel raggio temporale. La prima può fare affidamento su tempi praticamente infiniti, la seconda necessita di una verifica più stringente, per lo meno generazionale. È pur vero che la seconda può fare affidamento sulla ‘storia’: può leggere gli avvenimenti del passato come una progressiva realizzazione del progetto previsto nella ideologia condivisa.

La credenza, religiosa o terrena che sia, è sottoposta ad una forte tensione nella modernità a causa di un duplice fenomeno: da un lato, vi è il noto processo di razionalizzazione weberiano, eludibile solo pensando che vi sia una fede nei principi della modernità stessa (ragione, progresso, scienza...), dall’altro, vi è la critica alle grandi narrazioni e alla pretesa di trovare un filo interpretativo unitario della storia e quindi, in prospettiva, degli avvenimenti futuri (Delanty 2000). In altri termini, la razionalizzazione weberiana è concepita come un processo progressivo di secolarizzazione, di svelamento delle ragioni pratiche di tutto, dal quale risulta esente solo la credenza nella ragione stessa. Dal canto suo, la critica di stampo postmoderno smantella le pretese del razionalismo ma anche ogni lettura mitica della storia. La motivazione all’impegno solidale ma anonimo, basata sulla garanzia trascendentale, è messa dunque in discussione dalle letture attuali della società che portano in un modo o nell’altro al disincanto o alla caduta dei miti. 

 

III - la terza ragione per spiegare il dono anonimo è rinvenibile nel tema del ‘soggetto incompiuto’. Esso scaturisce dai limiti delle interpretazioni precedenti. Si è detto che l’intensa vita di gruppo non sembra un requisito necessario per svolgere un’attività di volontariato rivolta alla collettività. È una condizione importante ma non appare indispensabile. Così anche le credenze trascendentali appaiono essere sottoposte ad una forte erosione nelle società in cui i volontari esercitano il loro ruolo. Il ‘ripiegamento’ sull’individuo e sul senso del suo agire appare inevitabile. Proprio il donare ad una entità astratta è il segno della volontà di non aprirsi agli altri in una relazione incerta negli esiti, quanto di trovare un parametro generale nel quale identificarsi. Il tema del dono come perdita di qualcosa di sé per ricongiungersi ad una totalità assume una sua forma plausibile[4]. Il dono visto come ferita, pezzo di sé che arriva agli altri e permette una fusione nel collettivo, appare pertinente nel caso del dono anonimo. Il soggetto si sente incompiuto, storpiato, mancante. Il dono gli serve per ricondurre sé stesso all’unità, sanare le ferite fra sé stesso e il tutto. È curioso notare che proprio nel caso di certe forme di volontariato a difesa dell’ambiente e degli animali emergano motivazioni di questo tenore[5]. Vi è un afflato religioso che non è riconducibile a quello del punto precedente per la ragione che qui si mira ad una fusione con una entità generale, per la quale l’ambiente naturale, o meglio il cosmo, ben si presta a fare da simbolo.

L’io diviso o multiplo della post-modernità trova nel dono il modo di ricostruire la propria identità. Esso rifiuta il modello dell’homo œconomicus, la sintesi utilitarista che divide un uomo dall’altro, che pone in competizione reciproca. Tale individuo vede nel dono il modo di manifestare sé stesso e conservare l’unità con il mondo. In fondo il dono anonimo - lo abbiamo già detto - comporta una astrazione dagli altri concreti. Esso si rivolge ad una collettività nella quale tutti hanno diritti e ruoli, ma nessuno ha un volto specifico. Per meglio dire, tutti ovviamente hanno un volto - ossia un insieme originale di tratti personali - ma il dono prescinde da ciò, perché quello che interessa è l’insieme, la totalità. Con questa impostazione si arriva ad ipotizzare nel dono anonimo una fattispecie particolare: un attore che sceglie volutamente questa forma di donazione perché motivato dalla spinta a ricomporre la propria identità. Se così fosse si potrebbe ipotizzare esista una discontinuità profonda fra volontariato socio-assistenziale, da un lato, e quello culturale, ambientale e di protezione civile, dall’altro. Il secondo nascerebbe da un bisogno radicalmente diverso, dovuto a differenze a livello della personalità piuttosto che a situazioni contingenti che hanno portato a questa o quella forma di impegno.

 

IV - la quarta ragione del dono anonimo deriva dalle riflessioni sulla razionalità dell’agire umano. Le ragioni precedenti, in diverso modo, negavano una spinta razionale nella donazione. Essa piuttosto era vista come un bisogno, una credenza, una tensione. Ma vi è anche una ragione strumentale del donare a tutti, senza essere riconosciuti come creditori? Pare proprio di sì. Un soggetto razionale comprende che una certa disponibilità verso gli altri, senza la spasmodica ricerca di curare la propria immagine, alimenta circuiti della fiducia di cui egli stesso alla fin fine potrà giovarsi. È noto come proprio i comportamenti virtuosi verso l’ambiente alimentino un clima di fiducia in una collettività verso la quale si è poi disposti benevolmente[6]. Una comunità che tiene in ordine gli spazi pubblici suscita rispetto e una buona reputazione. Il soggetto razionale sa che alla lunga il suo comportamento a favore di tale fama verrà remunerato con una fiducia ancora più larga nella collettività. Ciò significherà servizi più efficienti, minori costi nelle transazioni economiche, maggiore ordine pubblico. Insomma, al soggetto ‘conviene’ donare e farlo senza ostentazione, senza la ricerca di un ritorno immediato in termini di immagine.

Le obiezioni a questa motivazione sono almeno due: perché il soggetto dovrebbe restare anonimo? È meglio alimentare la fiducia nella collettività ed anche la fiducia nel soggetto stesso, attraverso una donazione il più possibile visibile. In secondo luogo, l’alimentazione del circuito della fiducia può essere ragionevolmente ed empiricamente un processo molto lungo; così lungo che il soggetto non riesce a goderne i frutti. Inoltre, è molto probabile che il suo sforzo anonimo venga minato dai comportamenti opportunistici di tutti gli altri; in tal modo, egli sarebbe doppiamente beffato perché ha profuso uno sforzo che non è riconosciuto dagli altri e che non produce nessun cambiamento in senso positivo. 

Le obiezioni appaiono pertinenti, anche se alla prima si è già data una risposta implicita: il dono anonimo incrementa di più la fiducia nella collettività perché mette al riparo dalla critica che tutto sia fatto per puro interesse immediato (ritorno di immagine). Inoltre, vi sono molti casi di comportamenti positivi verso l’ambiente che assomigliano all’impostazione ‘razionale’. Si pensi ad esempio alla raccolta differenziata dei rifiuti, senza che vi sia alcun programma pubblico che lo impone, senza che vi siano incentivi per chi la fa. Questo è un comportamento quotidiano, individuale o familiare che non comporta grandi riconoscimenti da parte di gruppi, che non si concilia immediatamente con visioni olistiche o religiose. Perché non pensare che chi lo fa voglia innescare un circuito di fiducia fra i cittadini del suo quartiere così da godere nel giro di qualche anno di un ambiente più pulito, di una tassa dei rifiuti più bassa e di una civiltà meno assediata da scarti indistruttibili? In termini formali, questo atteggiamento è definibile come un dono a catena lunga: un’attesa che un gesto disinteressato e anonimo possa alimentare un circuito, fatto di molti passaggi, che poi si chiuderà con una restituzione (positiva) a sé stessi.

Si potrebbe obiettare ulteriormente che questo richiede una fede extrarazionale sulla tenuta della catena lunga. Serve una credenza nella bontà degli altri. Ciò non è del tutto vero, in quanto può bastare una razionale valutazione delle probabilità che la catena delle donazioni venga rispettata[7]. Certamente serve confidare nella lungimirante razionalità altrui. Questo può essere ottenuto in una serie di prove successive, così come insegna il gioco dei ruoli reiterato secondo il dilemma del prigioniero (Axelrod 1985).

 

            In conclusione, vi sono buoni motivi per avallare le ‘ragioni’ che giustificano il dono anonimo così come vi sono molte obiezioni per ciascuna di esse. Una verifica empirica può aiutare non solo a capire quale di queste risulta più plausibile ma anche a valutare se ciascuna può essere ulteriormente perfezionata. Resta anche da verificare se l’impostazione generale, a partire dal concetto di dono anonimo, è valida e riconosciuta dai protagonisti stessi del volontariato ambientale.

 

 

2.  Le guardie ecologiche volontarie

 

La ricerca qui presentata è stata svolta in quattro gruppi di Guardie ecologiche volontarie dell’Emilia-Romagna fra il 1999 e il 2000. I gruppi selezionati sono i seguenti:

 

- gev di Ferrara - 9 casi

- gev di Fanano e Pieve Pèlago (Modena) - 6 casi

- gev di San Prospero (Modena) - 11 casi

- gev di Parma e Piacenza - 6 casi

 

            Con l’esclusione del gruppo di San Prospero, gli altri operano in larga parte dentro i parchi naturali. Il criterio di selezione è stato, tuttavia, la conformazione urbanistica e geografica dei territori di competenza. Il gruppo di Ferrara è stato promosso da Legambiente ma aderisce alla Federazione GEV come gli altri tre; opera in un contesto di bassa pianura, in particolare nel parco del Delta del Po. I gruppi di Fanano e Pieve Pelago operano nella montagna appenninica, in particolare nel parco del Frignano o Alto Appennino Modenese. Il gruppo di San Prospero lavora in un tipico contesto agricolo-industriale della bassa modenese. Infine, i gruppi di Parma e Piacenza hanno un raggio d’azione che interessa l’intero territorio provinciale, anche se sono stati reclutati per la particolare presenza nel parco dello Stirone che si trova a cavallo delle due province, non lontano dai principali centri urbani della pianura (ambiente collinare periurbano).

            La raccolta delle informazioni è avvenuta attraverso un incontro preparatorio con i dirigenti dei gruppi, seguito dall’incontro con una selezione di sette-otto guardie per ciascun gruppo. In ogni incontro il ricercatore poneva una serie di domande, alle quali i partecipanti rispondevano a turno, ma senza un ordine rigido e con ampia facoltà di spaziare sui temi. Alla fine dell’incontro, veniva fatto compilare un questionario di una facciata, nel quale si dovevano scegliere due motivazioni al servizio su sei predefinite. In questo vi erano anche alcune domande sullo status della guardia. La selezione delle persone da invitare alla discussione è stata fatta dai dirigenti provinciali in base al criterio della massima variabilità di status. I dirigenti stessi sono stati invitati a non partecipare. Fra gli intervistati comunque vi erano sempre responsabili locali dei gruppi.

            La tecnica di ricerca, che si avvicina a quella dei focus group, è stata scelta per ottenere ampie informazioni sul tema della motivazione al servizio, sul quale non vi erano molte conoscenze pregresse. Non che manchino ricerche sul tema del volontariato, quanto piuttosto risulta poco esplorato il campo di quello ambientale e il tentativo di applicare a questo la teoria del dono. La rendicontazione di quanto emerso nelle discussioni dei gruppi avverrà secondo l’ordine delle domande: status dei volontari, definizione del servizio, motivazioni. 

 

 

2.1  Lo status sociale

 

Un aspetto che colpisce delle gev è la grande varietà di condizioni sociali presenti al loro interno. Si può pensare che questa impressione sia determinata dal criterio di selezione suggerito ai dirigenti (massima variabilità). Ciò non appare determinante perché le persone partecipanti all’incontro sono spesso sembrate effettivamente quelle che operano. Non è parso il frutto di una metodica selezione, quanto la presenza dei (pochi) realmente impegnati. Fra le guardie vi sono un buon numero di studenti universitari, spesso di discipline attinenti la natura, un certo numero di operai e lavoratori manuali, come gli artigiani. Probabilmente il gruppo più rappresentato è quello dei pensionati. In generale, non sembrano esserci barriere di status, anche se le categorie ‘alte’ (imprenditori, professionisti..) e i ceti impiegatizi non risultano particolarmente numerosi. Si potrebbe dire che vi è una certa complementarietà con lo status dei partecipanti ai gruppi ambientalisti, che pescano largamente nei ceti medi impiegatizi e fra gli insegnanti. Poche anche le donne e spesso impegnate nei servizi di segreteria piuttosto che nella vigilanza.

In genere si tratta di persone che hanno agganci anche con altre associazioni, spesso del settore, come quelle ambientaliste. Alcuni sono cacciatori o pescatori che hanno responsabilità nelle rispettive associazioni[8]. Anche questa è una interessante peculiarità delle gev: al loro interno convivono mondi che in teoria sembrerebbero incompatibili. Nel complesso le gev non sono dentro ampi circuiti di multiappartenenza; alcune hanno qualche riferimento, molte non ne hanno, o se ce l’hanno si tratta di appartenenze deboli.

Non si è indagato sulla situazione familiare. Qualcuno partecipa alla vita delle gev con un familiare. Non si registrano conflitti aperti con la vita privata. L’elevata quota di pensionati e studenti universitari fa pensare che vi sia una qualche incompatibilità con alcune esigenze della vita quotidiana: in particolare il lavoro intenso nella età di mezzo e la cura dei bambini piccoli. Bisogna ricordare che alle gev dell’Emilia-Romagna è richiesto un servizio minimo di 96 ore annuali, che corrispondono a due turni di vigilanza al mese di quattro ore ciascuno. Un impegno non particolarmente gravoso, al quale si deve però aggiungere la formazione, gli incontri organizzativi e le richieste extra-servizio. Si tenga conto che le gev sono anche agenti di protezione civile, e quindi sono chiamate nelle emergenze.

 

 

2.2  L’identità della guardia

 

            Parlando di status già si è entrati nella problematica del servizio. La seconda domanda cui sono stati sottoposti i gruppi è la definizione di servizio. Questo è stato il quesito che ha trovato più larga rispondenza fra gli intervistati.

            Bisogna premettere che in Emilia-Romagna il servizio delle gev è completamente gratuito (Regione Emilia-Romagna 2000). In base a convenzioni con comuni, provincia e parchi le guardie possono usufruire di un rimborso-spese per gli spostamenti, calcolato in chilometri. Anche altre spese, come la divisa e l’equipaggiamento, vengono in genere rimborsate. Il servizio consiste essenzialmente nelle ‘uscite’ ossia in giri di perlustrazione di una determinata porzione del territorio per verificare se in questo avvengono fenomeni di inquinamento o di uso improprio delle risorse naturali. Le guardie poi sono anche ‘chiamate’ nelle emergenze o da ufficiali pubblici per coadiuvarli in situazioni speciali. Entrano nelle scuole per fare educazione ambientale e partecipano ad iniziative promozionali di enti pubblici, associazioni e parchi. Le gev dispongono di una autorizzazione al servizio di vigilanza, fornita dal Prefetto in seguito alla partecipazione ad un corso di formazione. Il ‘decreto’ prefettizio fornisce loro un potere sanzionatorio di due tipi: fare il verbale a persone che hanno trasgredito le leggi di tutela e di fruizione dell’ambiente, che automaticamente si trasforma in una multa, oppure segnalare alle autorità competenti casi di trasgressione sui quali poi le autorità stesse eventualmente interverranno. La guardia non è armata e svolge il proprio servizio generalmente in coppia, portando un bracciale ed eventualmente indossando la divisa del corpo . 

            Su questi elementi basilari del servizio gev si innestano le ‘concezioni’ di questo espresse dalle guardie durante l’intervista. La prima grande tensione è sicuramente quella fra repressione ed educazione. Il tono stesso degli interventi sottolinea questo ondeggiare fra un ruolo di pubblico ufficiale chiamato a far rispettare in modo inflessibile la legge e un ruolo più sfumato di educatore, informatore, persuasore. Nella discussione emerge subito chi tende verso la vocazione di agente di polizia e chi verso il ruolo di comunicatore.

Le posizioni non sono mai nette. Le gev hanno ben chiaro che devono in qualche modo ‘contemperare’ le due tendenze. Si invoca, in tal senso, un ruolo di mediatore fra cittadini e ufficiali pubblici; la gev per la sua particolare situazione sta in mezzo fra chi applica in maniera inflessibile la legge (e non potrebbe fare altrimenti) e il normale cittadino, che ha molte situazioni specifiche che lo ‘portano’ a trasgredire le norme. Egli infatti non conosce la normativa, è vittima di un atteggiamento superficiale verso l’ambiente, è la prima volta che gli capita. La gev conosce bene queste situazioni, conosce bene i luoghi e persone; riesce, quindi, a capire quando è il caso di usare clemenza o quando bisogna applicare gli estremi rimedi (=verbale). In altri termini, la sua buona conoscenza locale e il fatto di avere un’autorità formale di basso profilo, gli permette di agire con quella elasticità che manca alle forze di polizia o ai vigili urbani. In forza di ciò vi sono maggiori margini alla negoziazione, al patteggio, alla discussione, nella migliore delle ipotesi al dialogo.

            Un secondo dilemma dell’identità delle gev è quello che in più di un gruppo è stato definita la differenza fra naturalista e ambientalista. La guardia tende a porsi come ‘naturalista’ e a contrapporsi all’immagine negativa dell’ambientalista. Il primo è considerato colui che fa direttamente qualcosa per la natura, ha un contatto immediato, svolge un servizio concreto, tangibile. Il secondo ha schermi ideologici o politici, parla e non fa, nel migliore dei casi svolge un ruolo di pressione sulle istituzioni. Molte gev hanno lamentato nel corso delle interviste di essere confuse con il partito o il movimento dei ‘verdi’. Ciò non è gradito sia perché nelle gev vi sono molti orientamenti politici, ma soprattutto perché l’essere di parte allontana la gente (in particolare in montagna, dove i verdi non sono visti bene) o fa perdere alla gev il suo appropriato alone di imparzialità. In quanto agenti chiamati a far rispettare la legge, essi non dovrebbero essere confusi con nessuna ‘quinta colonna’. Su questo schema polarizzante non tutti si riconoscono; anzi quelli che fanno parte anche di una associazione ambientalista lo rifiutano in toto, anche se ammettono che le due formazioni - gev e ambientalisti - svolgono ruoli diversi e complementari.

            Il ruolo della guardia ecologica volontaria si declina anche su un’altra importante dimensione polare: quella fra controllo dell’ambiente e immersione nell’ambiente. La maggior parte delle gev è orientata chiaramente sulla prima: esse si sentono persone che hanno un potere, una capacità, un esercizio sulla natura e sugli uomini; una minoranza esigua sottolinea invece aspetti misticheggianti: il servizio è un’occasione per stare nella natura, rigenerarsi in essa, avere il piacere di sentirla intatta e incontaminata. Qui i significati sono molto sfumati e avranno un notevole peso nel momento in cui si parlerà di motivazioni. Infatti, l’orientamento verso il polo mistico del dilemma (immersione) sarebbe caratterizzato da un certo individualismo, dal ripiegamento su sé stessi; dimensioni che tendono a negare la natura pubblica della gev. Tuttavia, non bisogna pensare che la gev sia attratta dal desiderio di punire il concittadino quanto dal piacere di sentire di padroneggiare l’ambiente che la circonda. L’uscita e la conoscenza dei luoghi è l’occasione per impadronirsi simbolicamente della natura. Il ruolo della conoscenza è fondamentale: essa è sentita come il metodo per controllare l’ambiente in maniera non invasiva, che non deturpa e, tutto sommato, concilia il dilemma fondamentale ‘repressione-educazione’. Quanto più si conosce, tanto più si può intervenire nei reali casi di bisogno e si può far conoscere agli altri le reali situazioni lesive dell’ambiente. La gev si qualifica, in ultima istanza, come figura che ha sotto controllo la situazione dal punto di vista cognitivo: essa è presente fisicamente sul posto, ma soprattutto osserva gli eventi; da ciò scaturisce il dialogo con il cittadino, ed eventualmente la verbalizzazione di illeciti. Questo stile di comportamento è il frutto di una conoscenza capillare del territorio, padroneggiato meglio di molti altri operatori pubblici (polizia, vigili, tecnici ambientali). In tal senso, è frequente la sottolineatura nelle interviste del fatto che la gev è riuscita a guadagnarsi una stima dagli operatori pubblici, che la interpellano di frequente quando vi sono interventi nei luoghi più reconditi  o nelle situazioni più ingarbugliate.

 

 

2.3  Il senso della divisa

 

Il tema della divisa merita un paragrafo a parte, pur essendo un punto della tensione principale della gev, quella fra repressione ed educazione. Merita una trattazione particolare perché su questo elemento così esteriore si gioca buona parte dell’identità della guardia. Non da tutti e non sempre la divisa viene portata durante le uscite. Alcuni usano una semplice fascia al braccio, altri tendono a non portarla o ammettono di indossarla di mala voglia, sentendola un vestito che richiama troppo la funzione repressiva.

Tuttavia, le interpretazioni della sua funzione non sono così scontate nel senso del controllo/repressione. Alcuni sostengono che la divisa è un formidabile strumento di dialogo con i fruitori a vario titolo della natura. Ciò avviene perché essa è un segnale chiaro, esplicito di un ruolo, alla stregua del cartellino degli operatori pubblici. Essa permette di chiarire i termini di una eventuale conversazione all’aria aperta, conversazione quanto mai utile per quella funzione educativa cui molte gev aspirano. La divisa permetterebbe di avvicinare e di essere avvicinati senza sospetti. Ancora più profondamente, si sostiene che questa è uno strumento di chiarificazione delle identità: nel momento in cui ci si confronta con una persona in divisa si ha un termine di paragone molto definito che aiuta a identificare anche se stessi[9]. Come è noto, l’identità non è mai l’assunzione di un singolo, fatta in completa solitudine; essa si plasma al contatto con gli altri, in base al parere degli altri o meglio alla percezione che si ha del punto di vista altrui. Avere di fronte dunque un ruolo ben definito aiuta a chiarire la propria immagine. Ciò vale evidentemente per quella parte della propria identità che riguarda il rapporto con la natura e quindi l’essere cacciatore, pescatore, cercatore di funghi. Ma anche il proprio senso dell’autorità e della legge entra in questo gioco degli specchi.

A questo proposito emergono fra gli intervistati i significati più consueti della divisa: l’ordine, la minaccia, la sanzione, il senso di paura ecc... Da tutti viene ribadito che è una funzione sgradevole ma necessaria. Qualcuno, in maniera velata, fa intendere che questo aspetto è particolarmente attraente. Il bisogno di ordine e di pulizia, l’esigenza di sentirsi rispettati o temuti emergono qua e là nelle conversazioni, anche se - si ripete - non sembrano i sentimenti dominanti

Altri significati della divisa sono poco richiamati. Il riferimento è allo spirito di corpo, al senso di appartenenza, al mito del gruppo. Può darsi che la risposta in questo senso non sia stata sufficientemente sollecitata. Comunque sia, resta forte l’impressione che la divisa sia - nel bene e nel male - uno strumento di comunicazione con l’esterno piuttosto che un elemento di forte connotazione interna al gruppo. Questo risultato si spiega forse con il fatto che la vita di gruppo delle gev non è particolarmente intensa[10]. Non mancano le feste comuni, le amicizie forti, un senso di stima e gratitudine reciproca; tuttavia, questi gruppi non sono in alcun modo riconducibili a delle comunità di vita o a compagnie di amici. La disgiunzione fra vita privata e vita di gruppo è accentuata. Al loro interno vi sono molte differenze di età, sensibilità diverse nei confronti della natura, incroci di amicizie che non coincidono con i confini del gruppo. Insomma, lo spirito di corpo non è particolarmente sviluppato. Piuttosto, vi sono rapporti molto radicati nella coppia che esce assieme e vi sono convergenze molto accentuate verso il responsabile locale. Questa figura ha i tratti del leader ‘debole’, che si impone non perché trascina gli altri in un impegno eccezionale verso la causa quanto piuttosto perché ha una conoscenza molto vasta dei luoghi e fa un numero molto elevato di ore di servizio. Egli, coerentemente con il profilo basso della vita di gruppo, si impone per le conoscenze che ha più che per le capacità di guida degli altri. In tal senso, anche i conflitti interpersonali sulla leadership appaiono all’interno del gruppo locale smorzati, quasi assenti.

 

 

2.3  Le motivazioni: prima di tutto l’efficacia

 

            Il cuore della ricerca era l’esplorazione delle motivazioni addotte per svolgere un servizio gratuito e anonimo. È già emerso che l’anonimato e l’impersonalità non sono assoluti. Anzi, la gev scopre un ruolo peculiare per sé proprio nella maggiore elasticità nel comminare una sanzione in forza della conoscenza specifica di luoghi e persone.

            L’analisi delle motivazioni sarà molto libera, volendo cogliere la grande varietà delle posizioni. Sarà quindi una sorta di elenco con una categorizzazione ancora molto semplice.

            Si può iniziare parlando delle motivazioni contingenti. Alcuni intervistati, sollecitati su questo argomento, non hanno riportato una motivazione astratta frutto di una riflessione a lungo meditata. Hanno piuttosto raccontato come hanno iniziato. In questo senso, le situazioni ricorrenti sono due: la prima è un avvicinamento più o meno casuale con il corso di formazione che preventivamente deve essere fatto per avere l’autorizzazione ad esercitare il ruolo di gev. Questa centralità del corso è stata sottolineata da parecchi: quasi una cerimonia di iniziazione che ha lasciato il segno. La seconda situazione è quella umano-professionale: il trovarsi improvvisamente senza lavoro, l’arrivo del pensionamento, la sollecitazione di un amico, di un collega o di un familiare, la voglia di fare del volontariato. Diversi sottolineano il fatto che vi è stata la ricerca di mantenere un collegamento con gli studi naturalistici fatti in gioventù e che poi il lavoro ha completamente negato.

            Di un certo rilievo sono le motivazioni come passione. È un termine usato dagli intervistati stessi, con molte declinazioni, anche difficili da riportare. Vi è la passione per gli ambienti naturali da parte di chi si definisce ‘un amante della natura’; vi è la passione per la bellezza ed armonia dei luoghi, a volte idealizzati come luoghi dell’infanzia o dell’appartenenza; vi è la passione per l’uscita, intesa come viaggio delle sensazioni corporee che il contatto con la natura suscita; vi è la passione intellettuale, se così si può definire; quella che motiva per il piacere di conoscere cose sempre nuove.  

            Una motivazione classica e frequente per le gev è quella dell’ordine. Su questa si distinguono fin dall’inizio della conversazione alcune persone, solitamente maschi, che rimarcano ripetutamente la presenza di un ambiente sporco (rifiuti) e deturpato da maleducati. Per questi la sanzione è la misura più efficace; la gev è motivata dal fatto che la sua presenza, la sua azione ‘contiene’ tali comportamenti. Induce subito - con efficacia immediata - una limitazione del danno all’ambiente. Il maleducato viene ‘messo in riga’, ‘raddrizzato’. I termini stessi indicano una geometria morale di cui la gev è l’agente fondamentale. Come già detto, questa motivazione è continuamente corretta, limata, sconfessata non solo nel gruppo ma anche nella guardia stessa. È vissuta come un dilemma, come una tensione anche nelle persone che più apertamente la rimarcano.

            Di tono basso è una motivazione che potremo definire ambientalista, tipica del militante. Viene esplicitata per accenni sparsi, spesso da persone di sesso femminile. ‘Ho cominciato a fare la guardia quando mi sono resa conto di quanti problemi vi sono nell’ambiente e nella nostra alimentazione’; ‘il problema ambientale è considerato in Italia di serie b’; ‘bisogna tutelare un bene che è di tutti’. Come già accennato, la motivazione ambientalista è vista come complemento di azioni sul piano politico, portate avanti dalle grandi organizzazioni. Si fa la gev per proteggere in maniera immediata e diretta l’ambiente. Un solo caso ha però sottolineato in maniera esplicita la valenza civica di questo servizio: è un modo alla portata di tutti per seguire attivamente le leggi e per modificare le cose sbagliate che riguardano tutti.

            La motivazione che appare più diffusa è legata all’efficacia del servizio. Questa si sovrappone in parte a quella basata sul bisogno di ordine. Si è infatti detto che la gev si motiva perché vede che il trasgressore modifica il suo comportamento di fronte all’arrivo della gev. In questo caso, la motivazione è più razionale nel senso che la gev vede che esiste una corrispondenza fra lo sforzo profuso (azione di vigilanza) e il risultato ottenuto (comportamenti meno degradanti). Il senso di efficacia è sostenuto anche da un certo ottimismo sulla questione ambientale: ‘i risultati si vedono’, ‘la gente comincia a cambiare idea’, ‘le questioni non sono così gravi come alcuni anni fa’. Altra fonte di sostegno sono le autorità pubbliche che collaborano attivamente con le gev per il controllo dell’ambiente. L’azione congiunta contribuisce ad una efficacia ancor maggiore della vigilanza.

A onor del vero, qui bisogna anche riportare alcuni toni critici. Il bersaglio polemico sono le lentezze nella concessione del decreto e la scarsa sensibilità di singoli amministratori o funzionari nel recepire le denunce fatte dalle guardie. Questi interventi critici emergono da singole guardie e trovano quasi sempre qualche altra che ‘corregge’ il tiro, smorza la polemica, circoscrive il problema, come a dire: non è una critica generalizzabile.

Tornando all’efficacia, bisogna aggiungere che il senso di realizzare qualcosa razionalmente si declina anche come capacità organizzativa, divisione dei compiti, assegnazione di ruoli ben precisi a ciascuno[11]. Appartiene alla sfera delle motivazioni razionali anche quella intellettuale. Questa può essere definita come una sorta di circolo virtuoso della conoscenza: per fare la gev bisogna conoscere sempre meglio il territorio, i fruitori della natura fanno sempre nuove domande sul territorio che stimolano la guardia ad approfondire, la risposta pertinente alle domande dei fruitori (si ricordi che le gev sono molto impegnate con le scuole) gratifica e motiva ad ulteriori approfondimenti di conoscenza.

            Bisogna anche dire che la motivazione basata sul senso di efficacia viene di tanto in tanto smentita dagli intervistati stessi allorquando parlano delle loro frustrazioni con i recidivi, dei problemi con i conoscenti, dei mille trucchi con cui viene elusa anche la loro sorveglianza.

 

 

2.4  Debito e riconoscenza

 

            In maniera artificiosa nella discussione sulle motivazioni è stata introdotta la tematica del debito. Secondo Godbout (1994; 1998), ciò che qualifica il dono è il debito. Egli sostiene che la circolazione del dono avviene perché vi è un senso di riconoscenza continuo fra gli interlocutori. Ognuno si sente sempre in debito con l’altro, sente che altro ‘eccede’ sempre con i doni e la disponibilità, per cui si mette in una costante tensione a dare. Il donare deriva dunque da un inappagato sentimento di gratitudine verso l’altro, da cui si pensa di aver ricevuto molto, tanto di più di quello che si è dato. Secondo Godbout (1998), questo sentimento regna nelle coppie sane, nel volontariato, nelle forme più profonde di amicizia.

            Nel caso del volontariato ambientale la domanda sul debito diventa molto pertinente. Dato che siamo di fronte ad una donazione con scarsa possibilità di restituzione, si può immaginare che essa venga fatta in forza di un senso di riconoscenza per qualcosa che si è ricevuto in passato. Allora, per che cosa si è debitori, verso di chi, come è possibile sdebitarsi?

            La domanda posta alle gev durante la discussione sulle motivazioni ha creato dapprima sconcerto. I più hanno negato ogni senso di debito verso chicchessia. Hanno ribadito che fare la gev è una passione che si giustifica da sé; essa non ha contenuto relazionale. Bisogna anche dire che il termine debito suona male, perché richiama le questioni economiche, il calcolo del dare e avere, che in quanto volontari essi rifiutavano. Il loro - giustamente - è un servizio gratuito. Più adatto è il termine ‘riconoscenza’, che richiama ad un obbligo morale, ad un senso di debito non materiale.

Per le stesse ragioni viste finora, la maggior parte delle gev rifiuta anche il senso di credito. Nessuno di loro può vantare meriti per il fatto che svolge un servizio gratuito e prezioso alla collettività. Anche in questo caso essi giustificano l’assenza di tale sentimento con il carattere poco dialogico del servizio. È qualcosa che si fa per se stessi, per un intimo piacere o per quelle motivazioni viste nel paragrafo precedente: senso di efficacia, bisogno di ordine, passione etc.

Tuttavia, mano a mano che la discussione andava avanti diversi intervistati cominciavano a riconoscere che il senso del debito non è così estraneo al loro servizio. Questo avveniva per una minoranza di guardie e soprattutto per quelle con motivazione più ambientalista. Ne è uscita una ricca casistica che val la pena di elencare:

            Debito o riconoscenza verso:

·      il padre che le ha trasmesso un grande amore per la natura; è giusto dare a tutti quello che si è ricevuto nel privato

·      la natura stessa vituperata quando era giovane e non ne conosceva il valore

·      la natura, che dà sempre senza mai chiedere in cambio

·      la società; essendo andato in pensione è arrivato il proprio turno di dare gratuitamente ed essere utile

·      la natura, accollandosi il debito che tutti abbiamo accumulato distruggendola e continuando a farlo. Per i debiti di inquinamento e distruzione delle passate generazioni

·      le gev ‘anziane’ che hanno trasmesso entusiasmo verso quel ruolo

·      ‘per me non vale il senso di debito, anche se svolgendo questo ruolo ho ricevuto più di quello che ho dato... chi se ne va dalle gev, forse lo fa perché non ha ricevuto abbastanza’

·      la natura che non chiede ma dà molte cose: sensazioni, piaceri, immersione totale, ricarica delle energie, senso di appagamento

·      se stessi; fare un servizio per coerenza con le esperienze passate

 

            In sintesi, le entità verso le quali le gev manifestano un senso di debito sono tre: altre persone, la natura, la collettività. Verso quest’ultima sono particolarmente rari i riferimenti, segno che non è molto presente nelle motivazioni il senso civico: il senso di dovere verso la società e le sue istituzioni. Il debito verso altre persone riguarda familiari e altre gev; anche in questo caso i riferimenti non sono molti. Vi è in ciò anche una ragione tecnica: la questione ambientale è giovane, può essere imputata a poche generazioni del passato; è un fenomeno del presente[12]. Più articolato e frequente è il riferimento ad un debito verso la natura. In questo caso il servizio volontario si motiva come sacrificio per lavare le colpe altrui verso questa entità oppure come riconoscenza per le piacevoli sensazioni che essa procura. Bisogna dire che negli incontri non si respirava alcun cupo clima di espiazione: fra le due forme di riconoscenza senza dubbio la seconda, quella positiva, prevale nei discorsi delle gev.

Bisogna tener conto che questo senso di riconoscenza viene sottolineato da pochi; in un gruppo poi è stato smentito praticamente da tutti. È una conferma del fatto che le motivazioni di impronta più ambientalista, filosofico-religiose del servizio sono poco diffuse. Nel gruppo che ha negato in toto la rilevanza della dimensione del debito, era palpabile una forte impronta razionale e pratica: non ci sono legami o obblighi con altre persone né con le istituzioni né con questa entità artefatta che è la natura. Vi è solo una grande passione per il compito svolto con professionalità e del quale si vedono i risultati. 

            A questo punto diventa interessante verificare se quanto intuito nella discussione di gruppo ha un riscontro nella batteria di domande poste, individualmente, alla fine dell’incontro. Queste sono in larga parte impostate secondo quelle dimensioni sociali e filosofico-religiose che le gev hanno trascurato o sminuito durante l’intervista.

 

 

2.5  Motivazioni del dono anonimo

 

            Il breve questionario finale è stato accolto bene. Tutti hanno risposto in maniera abbastanza corretta. Un solo caso ha dichiarato di averlo lasciato in bianco perché non si riconosceva in nessuno degli item proposti. In due gruppi vi sono state reazioni ex-post larvatamente negative; si appuntavano sul fatto che le dimensioni erano troppo specifiche, troppo imperniate sulla questione del dono. Ciò è comprensibile alla luce di quanto era emerso durante la discussione: tale questione non poteva che risultare lontana dal vissuto motivazionale della maggior parte delle gev.

            I risultati sono visibili nel grafico. Il punteggio massimo ottenibile da un item sarebbe in teoria 62, se tutti i 31 casi gli avessero dato due punti[13]. È facile notare su quale item è caduta la scelta della maggior parte delle guardie: ‘il dono mi fa sentire unito con il mondo; nel donare ritrovo la comunanza e l’uguaglianza con tutti’’ ottiene quasi 40 punti, con un distacco notevole dal secondo classificato: ‘donare in un’associazione mi avvicina agli altri, mi fa sentire il calore e l’identità di un gruppo’. Il significato che domina largamente nelle preferenze richiama quello che nella parte teorica è stato definito ‘l’io incompiuto’ ossia quel soggetto che dona per un impulso a ritrovarsi negli altri come totalità, quel soggetto che dà qualcosa di sé per ricongiungersi al tutto[14]. Proprio per questo riferimento all’insieme egli può fare a meno di relazionarsi a singoli, come succede nel dono personale. Tuttavia, l’item secondo per preferenze fa riferimento proprio ai legami vicari con l’associazione nella quale si svolge il servizio. Rileggendo i risultati alla luce del primo e secondo classificato si potrebbe concludere che la gev sente un forte bisogno di unità e fratellanza con gli altri siano essi gli abitanti del mondo che i membri del gruppo di volontariato.

            All’estremo opposto l’item che raccoglie i minori consensi riguarda la motivazione razionale al dono: si dà perché vi è la fiducia che quando si avrà bisogno la società risponderà. La fiduciosa attesa che la società sia benigna e possa un giorno ricompensare chi ha profuso tanto impegno per gli altri non trova consensi. Sembra qui confermato il rifiuto a ragionare in termini di debito e credito con la società, che era emerso chiaramente nella discussione a domande aperte. La gev non si riconosce nei calcoli, anche di lungo termine; dà e basta; oppure non riconosce fiducia nel corpo sociale; è disillusa sulla bontà altrui e delle istituzioni. Insomma, la spinta al dono anonimo su basi razionali non incontra il riconoscimento delle gev.

            Su posizioni basse vi sono altri due item degni di nota. La variante religiosa del dono anonimo è poca seguita. Dio quale garante di un dono senza possibilità di ritorno non riscuote un grande seguito. Sembra prevalente una netta laicità fra le gev, che probabilmente sarebbe ancora più marcata se nell’item si fosse fatto riferimento alla religione cristiana. Anche qui vi sono elementi di conferma dell’idea che il volontariato ambientale sia più secolarizzato di quello socio-assistenziale.

Anche il dono cosiddetto agonistico - Donare permette di affermarmi, mi fa sentire qualcuno; donare è come una gara, perché tirarsi indietro? - non è molto ben accolto fra le guardie ecologiche volontarie. Si tenga conto che questa motivazione del dono paga lo scotto di essere generalmente percepita come moralmente inadeguata. È infatti il dono fatto per ragioni di prestigio, molto diffuso nelle società altre, ma sentito come ipocrita secondo i canoni della compassione occidentale[15]. Pur tuttavia, qualcuno lo ha scelto. Sarebbe interessante avere a disposizione molti casi per poter verificare, chi è questo, come fa e concepisce il suo servizio, a quali altre motivazioni abbina il dono agonistico.

            Infine, il dono basato sulla interazione contingente e imprevedibile ottiene un punteggio simile a quello del riferimento a Dio e alla competizione. Si tratta di un item che non è contemplato nella parte teorica perché ritenuto poco pertinente per chi svolge un servizio non personalizzato. Invece, non è stato completamente disdegnato dagli intervistati. D’altronde, si è visto che qualche gev punta molto al proprio ruolo di educatore, di persuasore o di mediatore. In quei casi la capacità di porsi in una interazione aperta, di gestire l’imprevisto, di saper smussare le asprezze di carattere di un potenziale multato sono doti estremamente preziose. ‘Saper giocare di fioretto’ riferiva una gev durante la discussione nei gruppi.

            L’intervistato incastrato negli item predefiniti si è orientato su dimensioni che non aveva proprio sottolineato nella parte di intervista più libera. Dobbiamo quindi considerare i risultati del questionario come una semplice distorsione del metodo? Oppure, esistono dimensioni profonde del fare servizio come gev che sfuggono agli stessi partecipanti? Difficile dirlo con così pochi strumenti empirici. Certamente, le due parti non coincidono molto. La guardia ecologica volontaria si percepisce principalmente come una persona spinta dalla ‘passione’ individuale e gratificata dai risultati della propria azione di vigilanza sui comportamenti dei fruitori della natura. Le domande in base alle ipotesi del ricercatore erano centrate sul concetto di dono: costretta in questo schema teorico, la gev ha indicato soprattutto il senso di unità e fusione con il mondo, come tratto che giustifica il suo operato. La religione, le istituzioni, gli altri in carne ed ossa non sono stimoli primari alla lodevole azione gratuita a difesa dell’ambiente.

 

 

 

3.  Conclusioni

 

            Lo scopo del paper era duplice: dal un lato si volevano raccogliere nuovi elementi teorici del cosiddetto dono anonimo, dall’altro, si voleva illustrare un caso di volontariato ambientale alla luce di tale teoria. I due scopi sono quindi fortemente interrelati e come tali verranno verificati.

            Il volontariato delle gev risulta solo in parte anonimo. Esso è rivolto indirettamente a persone che spesso sono o vengono conosciute. Dovrebbe essere impersonale, nel senso che queste persone vengono trattate in base a leggi imparziali: se hanno trasgredito una norma, chiunque esse siano, devono subire una sanzione. Anche l’impersonalità è limitata per due ragioni: una è quando la gev esercita il suo ruolo di educatore-informatore, nelle scuole o all’aria aperta, l’altra è quando invoca la propria maggiore elasticità nel trattare le trasgressioni. In più casi, gli intervistati hanno sottolineato questa diversità rispetto ai pubblici ufficiali: la conoscenza delle persone e il fatto di essere autorità ‘deboli’ permette loro di esercitare un ruolo meno rigido, di agire sul buon senso, di dialogare, a volte anche di pattuire.

            Sul piano formale dunque il dono anonimo resta una forma rarissima di generosità. A detta di alcune guardie volontarie può essere, in taluni casi, controproducente perché le avvicina troppo ai pubblici ufficiali, chiamati a ‘non guardare in faccia a nessuno’. Resta il problema di capire quale sia il confine fra dono anonimo, ossia il servizio fatto alla collettività in astratto per difendere un bene comune che prescinde dai singoli, e il dono personalizzato, che tratta il trasgressore come una persona con cui dialogare. È il problema - già sollevato a suo tempo proprio per i pubblici ufficiali (Osti 2000) - del rapporto fra dono personale e impersonale. La ricerca si è fermata alle soglie di questo. Si è capito che c’è una grande variabilità fra gev e gev: quelle che non dialogano per niente e comminano multe senza pietà ‘li prendo per il gravattino, chiunque siano’, quelle che denunciano tutto il loro disagio nella veste di repressori (vedasi il dibattito sulla divisa) e quelli che hanno elaborato una strategia basata sul circuito virtuoso della conoscenza; quelli cioè che vedono nel ruolo informativo un modo per prevenire-addolcire la funzione repressiva.

            Ma i contenuti di questa informazione sull’ambiente non sono quasi mai emersi nelle interviste. L’impressione è che diverse gev abbiano in mente la pura trasmissione di nozioni sulla natura, una variante dell’insegnamento scolastico delle scienze naturali. Si sa che tale visione è considerata obsoleta da chi si occupa di educazione ambientale (Colombo 2000); in questa devono essere introdotte molte dimensioni culturali e politiche, di cui le gev non sembrano particolarmente accorte.

            La domanda sulla motivazione al servizio in forza di un debito verso qualcuno-qualcosa ha comunque fatto intuire alcune concezioni di natura, presenti fra le gev. Si è detto che larga parte delle guardie presenti all’incontro non si è riconosciuta in questa domanda, ma che una minoranza poco a poco ha elencato interessanti riferimenti. In particolare, è uscito proprio il debito verso la natura. Come può essere interpretato?

            Non è certo un debito verso la natura, concepita come dono di Dio che deve essere amorevolmente accudito, secondo quanto vanno sviluppando i teologi cristiani negli ultimi anni (Angelini et al. 1990; Boff 1996; Molari 1992; Rizzi 1991). Ma non sembra neppure la natura come superorganismo al quale tutti i viventi sono legati in maniera organica, secondo la vulgata dell’ecologia profonda (Cardano, 1997). La gev ‘media’ pare non condividere posizioni forti di tipo trascendentale o immanentistico. Piuttosto ella pone la natura come ‘oggetto’ fuori di sé, verso il quale vi è una ragionevole responsabilità, da esercitare in termini razionali: conoscenze adeguate, organizzazione ben congegnata, presenza capillare sul territorio.

            La forza di fare gratuitamente e senza la gratificazione di un legame con l’altro (dono anonimo) deriva, in ultima istanza, dalla soddisfazione di vedere che tutto funziona e che la gev è efficace e capace di padroneggiare gli eventi. Questa motivazione è riconducibile ad una sorta di dono con motivazione razionale, ma non nel senso previsto (par. 1, IV), che recitava così: ‘do perché incremento la fiducia nel sistema che a sua volta un giorno mi restituirà’. Si può pensare, invece, ad una specie di dono agonistico attraverso il quale dimostrare a sé stessi e agli altri che si è capaci, bravi, efficienti. Non si tratta di gareggiare con un altro; non è una competizione personale quanto piuttosto una gara fra sé stessi e la collettività. Vi è un prestigio, un senso dell’onore da promuovere nella comunità in cui si vive che consiste nello svolgere bene un compito che fornisce benefici a tutti. In tal senso, è anche coerente l’ampia preferenza per quell’item che richiamava il senso di unità e uguaglianza con tutti (par. 2.5). In fondo la guardia ecologica volontaria vuole dimostrare agli altri, alla comunità che è capace di fare cose che ricompongono l’unità con tutti. È un dono agonistico che vuole unire piuttosto che dividere.

            Non bisogna pensare che questa motivazione tipicamente sociale sia l’unica; è quella che appare più coerente con l’impianto teorico messo in campo. Vi sono motivazioni strettamente personali, legate alla passione, che sono state largamente citate. Il risultato finale, anche se ancora molto parziale, è dunque sintetizzato in quella versione di dono agonistico che unisce che può essere ricondotta alla riflessione teorica sull’io incompiuto (par. 1, III). A ciò bisogna aggiungere un ultimo elemento di carattere propositivo.

            Se è vero che la motivazione che sostiene il lavoro volontario delle guardie è lo svolgere con abilità un compito che permette a tutti di sentirsi uniti all’insegna del comune patrimonio naturale, si possono immaginare eventuali punti di crisi. Essi presumibilmente scoppiano quando la gev si accorge che molti non si adeguano alle norme di salvaguardia della natura, continuano a trasgredirle, sono recidivi. In quel caso il proprio senso di efficacia comincia a vacillare; lo sforzo di educare e reprimere non dà frutti e sembra inutile continuare a insistere. Sul piano più profondo ciò significa anche che il compito di ricondurre a unità non si realizza, le persone continuano a restare divise, contrapposte, disordinate. Basare la propria motivazione su questo semplice ritorno di efficacia dell’agire volontario può essere molto labile, fonte di rapide delusioni e di precipitose fughe dal corpo. Allora, si pone come urgente il compito di elaborare ragioni meno immanenti e contingenti del senso di efficacia, ragioni che letteralmente ‘trascendano’ la pratica quotidiana del servizio, la discussione su come organizzarsi, la conoscenza dei commi da applicare. Questa sfida è aperta; merita un certo spazio in un corpo giovane e promettente come le guardie ecologiche volontarie.

 

 

 

Riferimenti bibliografici

 

Angelini, G. et alii

1991            Ambiente e tradizione cristiana, Morcelliana, Brescia.

 

Axelrod, R.

1985    Giochi di reciprocità. L’insorgenza della cooperazione, Feltrinelli, Milano.

 

Bataille, G.

1997    Il dispendio, Armando, Roma.

 

Berthoud, G.

1994    Il mercato come simulacro del dono? in Berthoud et al., Il dono perduto e ritrovato, Manifestolibri, Roma, pp. 43-67.

 

Boccacin, L.

1990            Altruismo, reciprocità e scambio simbolico nel terzo settore, in “Studi di sociologia”, XXVIII, 3, pp. 321-336.

 

Boff, L.

1996    Grido della terra, grido dei poveri. Per un’ecologia cosmica, Cittadella, Assisi.

 

Caillé, A.

1998    Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono, Bollati Boringhieri, Torino.

 

Campanini, G.

1993            Dall’estraneità alla prossimità, in Danese A. (a cura di), L’io dell’altro. Confronto con Paul Ricoeur, Marietti, Genova, pp. 97-108.

 

Cardano, M.

1997    Lo specchio, la rosa e il loto. Uno studio sulla sacralizzazione della natura, Seam, Roma.

Colombo, E.

1993    Il dono come risorsa relazionale, in “Sociologia e Ricerca Sociale”, n. 42, pp. 47-83.

 

Colombo, M.

2000    Le forme sociali dell’educazione ambientale, in “Futuribili”, (in corso di pubblicazione)

 

Danese, A.

1993    La struttura triadica dell’ethos della persona, in Id. (a cura di ), L’io dell’altro. Confronto con Paul Ricoeur, Marietti, Genova, pp. 15-29.

 

Delanty, G.

2000            Modernity and postmodernity, Sage, London.


Donati, P.

1996    Che cos’è il terzo settore: cultura, normatività, organizzazione, ruolo societario, in Id. (a cura di), Sociologia del terzo settore, NIS, Roma, pp. 25-42.

 

Dickens, P.

1992            Sociologia urbana, Il Mulino, Bologna.

 

Di Nicola, G.P.

1994    Per una ecologia della società, Dehoniane, Roma.

 

Esposito, R.

1998            Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino.

 

Godbout, J.T.

1994    La circolazione mediante il dono, in Berthoud et al., Il dono perduto e ritrovato, Manifestolibri, Roma, pp. 25-42.

 

Godbout, J.T.

1998    Il linguaggio del dono, Bollati Boringhieri, Torino.

 

Herzog, H.A. jr.

1993    “The movement is my Life”: the Psychology of Animal Rights Activism, in “Journal of Social Issues”, vol. 49, n. 1, pp. 103-120.

 

Maccarini, A.M.

1997    La cultura ambientalista: verso una nuova società civile?,  Angeli, Milano.

 

Manghi, B.

1999            Generosità disincantata. L’agire altruistico e il crepuscolo della virtù, in “La Società degli Individui”, II, n. 4, pp. 83-97.

 

Molari, C.

1992    La teologia e il problema ecologico, in “Rocca”, n. 22, 15 novembre, pp.....

 

Osti, G.

2000    Delle contaminazioni del dono, in “Studi di Sociologia”, XXXVIII, n. 2,  pp. 189-203.

 

Parry, J.

1986    The gift, the indian gift and the ‘Indian gift’, in “Man”, 21, pp. 453-473.

 

Pulcini, E.

1996            L’identità ferita e la passione della comunità. Da Bataille alla teoria del dono, in “Fenomenologia e Società”, n. 1-2, pp. 231-242.

 

Ranci, C.

1994            Altruismo e reciprocità: due modelli di solidarietà a confronto, in Cattarinussi B.(a cura di), Altruismo e solidarietà, Angeli, Milano, pp. 49-55.

 

Regione Emilia-Romagna

2000            Guardie ecologiche volontarie. Dieci anni di attività in Emilia-Romagna, Bologna.

 

Ricoeur, P.

1994            Persona, comunità e istituzioni. Dialettica fra giustizia e amore, Edizioni Cultura della pace, Fiesole.

 

Rizzi, A.

1991            L’Europa e l’altro. Abbozzo di una teologia europea della liberazione, Paoline, Milano.


Stanzani, S.

1995    Effetti di interazione. Contributo al dibattito sui media simbolici generalizzati del terzo settore, in “Sociologia”, XXIX, n. 2-3, pp. 153-187.

 

Zamagni, S.

1997    Il settore nonprofit in un’economia nonprofit, in Colozzi I. (a cura di), Terzo settore e sviluppo civile, Angeli, Milano, pp. 47-56.

 


il volontariato ambientale: un caso di dono anonimo?

 

di Giorgio Osti

 

Riassunto

Nel paper si persegue un duplice scopo: da un lato, approfondire e specificare dimensioni analitiche del dono, in particolare di quello anonimo, dall’altro, presentare alcuni risultati di ricerca emersi su un caso tipico di dono anonimo, quello del volontariato ambientale. Il caso empirico è rappresentato dalle Guardie Ecologiche Volontarie (gev) in servizio in diversi ambiti territoriali dell’Emilia-Romagna.

La ricerca è stata condotta con il metodo del focus group. Questa ha permesso di cogliere elementi di fondo del volontariato ambientale: l’identità, il rapporto con i cittadini e le istituzioni, la vita di gruppo. In particolare, è stato indagato il senso di riconoscenza come fattore motivante il servizio. La guardia ecologica volontaria sembra motivata da una sorta di ‘dono agonistico’ volto ad unire piuttosto che a primeggiare.

 

------------------------------------------------

Nota biografica

Giorgio Osti è dal novembre 2000 professore associato di sociologia delle migrazioni all’Università di Trieste. Ha svolto ricerche sullo sviluppo delle aree rurali, la pianificazione dei parchi naturali, la nascita di organizzazioni noprofit per l’ambiente. Recentemente ha pubblicato La natura, gli altri, la società. Il terzo settore per l’ambiente in Italia (Angeli, 1998). È in corso di pubblicazione presso la rivista ‘Sviluppo Locale’ (n. 3/2000) l’articolo: Il ruolo delle associazioni nello sviluppo socio-territoriale. Il caso della Garfagnana. Si è anche interessato delle dimensioni teoriche del terzo settore mettendo a fuoco i concetti di reciprocità e dono. A tal proposito ha scritto: Reciprocità e sviluppo sostenibile, ‘Stato e Mercato’, n. 56, 1999 e Delle contaminazioni del dono, ‘Studi di Sociologia’, XXXVIII, n. 2, 2000.

 

Questo articolo è in corso di pubblicazione nella rivista 'Sociologia' n. 1 del 2001.

 

Giorgio Osti

Dipartimento di Scienze dell’Uomo

Università degli Studi di Trieste

Piazzale Europa, 1

34127 Trieste

tel. 0406763730 - 0425494710

e-mail: ostig@sp.univ.trieste.it

www.lscmt.univ.trieste.it/osti


HOME PAGE

 

[1] Ricoeur (1994) definisce questo il dono a ciascuno. In Italia questo tema è stato sviluppato fra gli altri da Campanini (1993), Danese (1993) e Di Nicola (1994).

[2] Su questo tema nello specifico per l’ambientalismo vedasi Maccarini (1997).

[3] Si riallaccia ad una letteratura generale sulla crisi di radicamento dell’uomo moderno compensata dall’adesione a piccole patrie, gruppi intimistici e religiosi, ambiti locali (Dickens 1992). Si riallaccia anche a specifiche spiegazioni del sorgere del volontariato moderno (cfr. Ranci 1994).

[4] Vedasi Bataille (1997), le elaborazioni di questo in Pulcini (1996) e Esposito (1998). Elementi in tale direzione anche in Manghi (1999) e Osti (2000).

[5] Sulle motivazioni para-religiose degli animalisti vedasi Herzog (1993). Si tratta di simboli religiosi di carattere panteistico piuttosto che riferimenti ad un Dio come entità terza.

[6] E’ nota la fiducia degli italiani nei popoli nord europei proprio in considerazione della loro maggiore capacità di tenere pulito l’ambiente.

[7] Le teorie razionali della solidarietà e del dono hanno il loro vero punto di debolezza nella spiegazione dell’innesco del circuito positivo. Dopo che un ciclo di dare e avere si è innescato è plausibile avere una razionale attesa che si prolunghi nel tempo. Infatti, in queste teorie si giustifica la cooperazione fra due soggetti razionali come frutto dell’apprendimento attraverso prove successive. Il problema è proprio chi si espone per primo al rischio di essere danneggiato.

[8] Una parte del mondo gev viene da quegli amanti di caccia e pesca che hanno una più acuta sensibilità ambientale e vedono nelle gev un modo di occuparsi dell’ambiente in maniere più globale rispetto alle guardie ittico-venatorie.

[9] “Quando ti vedono sono contenti perché finalmente possono mostrare la licenza a qualcuno e essere riconosciuti come persone in regola”.

[10] Secondo il presidente nazionale di FederGEV (intervista personale) è un tratto che varia molto da gruppo a gruppo.

[11] Anche questa dimensione si sovrappone in qualche modo a quella dell’ordine, che probabilmente funziona da matrice di fondo, meno accettabile sul piano morale e quindi giustificata con ragioni più neutre.

[12] Non viene verbalizzata però una ragione che si è spesso sentita echeggiare nelle aree rurali: noi siamo debitori degli sforzi di conservazione dell’ambiente svolti dalle generazioni dei nostri padri. Questa ragione serve solitamente a giustificare una gestione locale delle risorse naturali.

[13] All’intervistato era chiesto di assegnare due ++ all’item più vicino alla sue preferenze e un + al secondo in ordine di preferenza. Bisognava sceglierle due, mentre alcuni hanno dato un punteggio ++ o + a tutti gli item.

[14] Evidentemente un solo item per una dimensione così carica di significato è molto poco. Il questionario aveva uno scopo esplorativo, come del resto tutta la ricerca.

[15] Il dono nelle società moderne viene concepito come disancorato dalle dimensioni sociali, come il prestigio; esso deve rispondere ad un puro slancio di affetto verso il destinatario (Parry 1986). In realtà, anche nelle società moderne si possono concepire ‘gare’ al dono più bello, pur con una incombente riprovazione morale per ciò.


© GEV Modena 1996 2006 - Il materiale pubblicato nel sito appartiene al Corpo Guardie Ecologiche Volontarie della Provincia di Modena. Si declina ogni responsabilità sull'utilizzo di quanto pubblicato. Se ne consente la riproduzione non a scopo commerciale citandone la fonte. Ultima modifica 24 dicembre 2007.